Anche il Friuli Venezia Giulia ha avuto i suoi “monuments men”
a cura di Roberto Cassanelli
Nella catastrofe delle strutture statali che fece seguito all’8 settembre 1943 un gruppo di valorosi funzionari si distinse per abnegazione e senso del dovere. In varie città d’Italia i soprintendenti, temendo l’invasione delle truppe germaniche, si preoccuparono di intensificare, anche a rischio della vita, le azioni di protezione delle opere d’arte disseminate sul territorio e nei musei, cercando rifugi sicuri, e sottraendole così alle rapine programmatiche del Kunstschütz (Ufficio protezione opere d’arte, annesso alla Wehrmacht) tedesco. Figure come Pasquale Rotondi (soprintendente di Urbino) ed Emilio Lavagnino (soprintendente del Lazio) sono così divenuti familiari al grande pubblico, che ha imparato a conoscerle ed apprezzarle anche grazie a un recente fortunato film dedicato ai “monuments men” dell’esercito americano.
E’ meno noto che anche Friuli Venezia Giulia ha condiviso un’esperienza simile, sebbene in parte differente a causa della particolare situazione geopolitica in cui venne a trovarsi la regione dopo la caduta del fascismo e la dissoluzione dell’esercito. Secondo i piani di Hitler infatti, sin subito l’8 settembre, due aree di confine, il Trentino Alto Adige e appunto il Friuli e la Venezia Giulia, vennero staccate dal resto d’Italia e costituite in entità autonome denominate Alpenvorland (Prealpi) la prima, e Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico) la seconda, con un’amministrazione tedesca parallela e sovraordinata a capo della quale venne posto un Commissario supremo tedesco.
Accanto alla Soprintendenza alle Gallerie e Monumenti di Trieste, guidata dall’architetto Fausto Franco, operò dunque un analogo ufficio tedesco di cui fu responsabile lo studioso austriaco Walter Frodl, affiancato da Erika Hanfstängl e Antonio Nicolussi-Moretto.
A differenza degli altri Kunstschütz però, quello del Litorale Adriatico, che aveva sede a Udine, non operò però sistematiche razzie, contrastando spesso le iniziative dell’esercito tedesco e delle SS, capitanate da Odilo Globocnik, sloveno di lingua tedesca e triestino di nascita. Cercò anzi con Fausto Franco e il suo principale collaboratore, Carlo Someda de Marco, Direttore dei Musei Civici di Udine, di ricoverare nei musei del territorio le opere d’arte sequestrate alle famiglie di religione ebraica. Ciò non evitò comunque che si determinassero rapine e oltraggi ai beni ebraici, come l’assalto alla sinagoga di Trieste.
Già nel 1940 Franco e Someda avevano avviato un’importante opera di salvaguardia del principale patrimonio storico artistico regionale, in particolare di Trieste e dell’Istria sino a Fiume, riunendolo nelle sale a piano terra di Villa Manin di Passariano, chiuso in casse e sorvegliate da un drappello di militari. Dopo l’8 settembre anche questa collocazione si rivelò troppo esposta ed insicura, e, con l’aiuto del Direttore del Museo Archeologico di Pola Mario Mirabella Roberti, restituite parte delle opere ai legittimi proprietari, si procedette a trasferire quanto rimasto a San Daniele del Friuli nei locali messi a disposizione dalla principessa Cristiana Windisch Graetz Florio.
Di tutta questa vicenda sino ad oggi si sapeva ben poco. Una mostra organizzata dall’Università di Udine e alcuni convegni avevano cercato di gettare luce, ma molto restava ancora da fare. Una pubblicazione del Ministero della Cultura, fondata su un attento censimento delle fonti disponibili, ne restituisce, anche grazie a un’ampia documentazione fotografica, le linee essenziali, giungendo sino alla fine della guerra nel maggio 1945 e alla dolorosa amputazione di tutti i territori ad est di Trieste, che rimase separata dall’Italia sino al 1954.